n nutrito carteggio inedito, costituito da uno scambio di 360 lettere e di 13 biglietti, di singolare interesse per i numerosi elementi informatori e chiarificatori della vita e del pensiero del Tommaseo e del medico friulano Pierviviano Zecchini, si trova conservato alla Biblioteca Nazionale di Firenze.1 Dei due corrispondenti il primo, illustre, è una figura di scrittore e poeta che non ha bisogno di presentazione, il secondo, invece, è quasi ignoto, e proprio per questo ci sembra meritevole di essere tratto dall'ombra in cui è rimasto avvolto.2 La ragione di questo, per così dire, recupero, non risiede tanto nell'opera varia e appassionata o nella concezione morale idealistico-romantica dello Zecchini, secondo la quale il dotto e lo scienziato sono tenuti ad un impegno pedagogico a servizio dell'umanità, quanto piuttosto nella sua straordinaria sensibilità d'animo, nella coerenza e nel rigore etico che hanno ispirato la sua vita. L'attività di limpido e fiero patriota e quella di benefattore, anche in virtù della sua professione, che egli realizzò con il fervore dello studioso e l'abnegazione di un samaritano, sono ragioni per le quali spesso mise a rischio la propria vita per il sostegno dei deboli, dei proscritti e degli oppressi di tutte le nazioni. Attraverso l'epistolario, Tommaseo stesso ne sottolinea la generosità in una lettera a lui diretta da Venezia il primo giugno 1847:
Tempo fa — gli confidava il dalmata — venendo da Padova, montai per isbaglio ne' terzi posti, e mi trovai accanto a una povera vecchia di presso a Spilimbergo, ch'ebbe la casa arsa in Settembre; e che si lodava della carità di Lei con parole le quali non potevano non essere sincere, se dette ad ignoto, e di persona ormai lontana che in nulla l'avrebbe ajutata più. E gliene dico, perché questa reputo lode più desiderabile, che de' giornali e de' letterati.
E ancora il Tommaseo il 9 giugno 1873, mentre si doleva affettuosamente con l'amico, per aver quest'ultimo « ceduto ad altri » — dopo la morte del figlio — « cose proprie di valore » traccia di lui un breve profilo affermando:
conveniva insieme richiedere non andasse venduto il ritratto di Lei vestito in divisa di medico militare, medico di Grecia: ricordanza onorata della sua giovinezza, e documento del come Ella sappia conciliare la religione e la scienza, i sensi di famiglia e di patria ...
Tuttavia, per illustrare ulteriormente il tratto forse più caratteristico della personalità dello Zecchini, ripetutamente colpito nell'arco della sua vita da lutti e da sventure, e avente origine da una incessante tensione volta a spiegare le ragioni esistenziali, chiudiamo riportando da una lettera al Tommaseo del 21 dicembre 1872, una sua riflessione che manifesta un'intima visione universale placata e serena, nella quale il male e il dolore umano non solo sono giustificati, ma rientrano come necessità provvidenziali:
Di queste perdite crudelissime cerco quietarmi e rassegnarmi co' soccorsi della ragione e della religione, le quali spesso sono da me invocate di concorrere insieme a prestarmeli, e lo faccio, parmi, non inutilmente ... né io del mio caso, né alcuno di qualunque altro accada nel mondo, dobbiamo lamentarci della Provvidenza, non potendo noi ascendere a calcolare tutta la serie delle cause che ànno preceduto e preparato quello avvenimento ... Nel caso si domandasse a Dio la negazione d'un avvenimento qualunque grande o piccolo, si esigerebbe nientemeno che una mutazione nell'ordine stabilito delle cose ... un novello universo ... L'idea che i mali sono necessarj all'ordine del mondo, non la limito a considerare quest'ordine nella sua materialità od esterna apparenza, ma la estendo all'ordine morale, e però tengo che i mali sono necessarj per occasionare il maggior grado di virtù nell'umanità, ed il maggior grado di felicità.
Non di rado, dal carteggio scaturiscono, unite agli argomenti più vari — filologia, filosofia, religione, storia, arte, etica, costume —, pregevoli con-siderazioni poetiche e risvolti esegetici di notevole interesse, applicati alla scienza e alla medicina, così che la vita stessa risulta permeata del mistero poetico.3
L'amore per la poesia, che il Tommaseo ritiene di ispirazione divina,4 dominata dalla speculazione dell'intelletto — necessità naturale per il raggiungimento della verità, anche a detta dello Zecchini 5 —, è la passione che forse maggiormente lega i due corrispondenti. Il poeta, sostiene il dalmata, deve attingere alla dottrina, al vero, al buono, al bello e rendere questi valori in forma armoniosa, con lo scopo preminente di ammaestrare.6 Al fine di conseguire questo intendimento è indispensabile, sì, un'attenta ricerca dei termini, ma unita ad una rigorosa analisi filologica delle voci, affinché la cura eccessiva del lessico non porti a vuote risonanze, bensì, secondo un ideale accordo di equilibri, ad una sintetica ma efficace pregnanza, tanto fondata, quanto fruttifera. La lettera, infatti, inviata da Firenze allo Zecchini il 26 settembre 1872 — e da noi riportata più avanti — costituisce una vera e propria esposizione del concetto di poesia del Tommaseo, in ordine anche ai princìpi della nuova arte romantica ispirata alla universale verità del concreto ed al messaggio etico-religioso, in opposizione alle inutili e dannose regole del classicismo. In esse, a suo avviso, l'ornato poetico, può costituire motivo di « inviluppo » e può compromettere, oscurandola, la luce della verità e della bellezza, che è la più evidente manifestazione della sostanza perfetta. In tal modo l'effetto vagheggiato in origine, di rappresentare, cioè, quest'ultima con un « simbolo » fattivo, si espone, al contrario, al rischio di risultare « enimma » inerte proprio per le moltitudini, alle quali il pubblico messaggio di fede e di soccorso maggiormente è diretto.7 Egli insiste sulla gravità dell'impegno dell'artista, per il quale poetare diviene una missione volta a far sorgere nei popoli emozioni ideali e morali, e il poeta è, perciò, quasi un apostolo della luce di Dio: egli dovrà « approssimare ai più le cose alte, recare in luce le profondamente recondite ». Il Tommaseo, a questo punto, offre preziosissimi ragguagli di tecnica estetica, raccomandando, pur nella lunghezza dello sforzo, la concisione dell'esito letterario: « lungo il lavoro, non però lunghe le opere che ne riescono ».8 E condanna con durezza la moda di chi usa, per « ostentazione d'ingegno », pompe declamatorie oziose e sterili, perché rischia così di avvelenare anche quanto di autenticamente poetico ed incorrotto possa essere sgorgato dal suo cuore.
Tuttavia il tratto di missiva nel quale la modernità del significato di poesia tommaseiano fa più straordinariamente spicco è quello in cui egli consiglia di far appello allo stile degli antichi, sobrio e misurato, rammentando che il linguaggio più semplice è quello più umano, quello che giunge più diretto al popolo,9 ed introduce, insieme, il concetto di « evidenza »,10 ponendo l'accento sulla necessità di immagini rapide,11 sull'invenzione poetica come opera di sintesi, che si fa espressione di verità rivelatrice dell'arcano della nostra esistenza. Per questo egli giudica aspramente la lirica a lui contemporanea, che si fonda solo sulla vuota retorica, sulla gonfiezza esagerata e sulla stravaganza, che offuscano la lucidità dei giudizi, e attribuisce miseria di pensiero e di sentimenti a quegli scrittori le cui opere risentono di plagio e di parodia di idee altrui.12
L'artista moderno, quindi, che così agisce, è inabile alla trasmissione di alcunché di costruttivo o di riconoscibile per i suoi simili, poiché « e' non interroga sé, pur pensando a sé; non esce di sé medesimo colla carità e colla compassione, stando pur rannicchiato in sé con la fredda passione superba ».13
Anche lo Zecchini, da parte sua, concorda col dalmata su questi princìpi e ritiene la poesia come motivo di conforto religioso, o come filosofico anello di congiunzione fra cielo e terra.14 La concezione letteraria ed il programma del Tommaseo sono approvati con entusiasmo dal medico friulano, egli vi si impegna e li propugna apertamente calcando le orme del maestro. Ma dove lo Zecchini si dissocia, con impeto di parte, dall'opinione tommaseiana è nello scetticismo di quest'ultimo per l'arte medica, che il celebre scrittore considera troppo teorica, quindi, poco affidabile. Il medico friulano, nella lunga lettera del 21 maggio del 1843,15 dopo una gragnuola di obiezioni e di precisazioni a favore della medicina, mentre ne parla come di un'arte « induttiva » e « creativa », e sostiene la necessità di una teoria per ogni attività umana, viene altresì a parlare di poesia e dello scopo dell'arte, della natura come « modello » del bello visibile e dei sensi come strumenti di giudizio estetico, e nel difendere l'arte medica, attribuisce ad essa maggiore creatività di quanta non ne riferisca alle arti imitative della natura.16
Concludiamo adducendo un tratto significativo della lettera del Tommaseo, datata 18 maggio 1873, che si pone a testimonianza di quale fosse — diatribe a parte — la ragione d'affetto e di stima del dalmata per lo Zecchini, sul reciproco filo conduttore della poesia: « L'aver Lei fatti leggere a un figliuolo i versi miei su' contagi, mi prova com'Ella sia de' non molti lettori che intendono insieme e sentono ».17 Nel medesimo scritto, subito dopo queste parole, il Tommaseo, indotto forse dalla definizione, poco sopra data dall'amico, in materia di intelligenza poetica, rivela uno scorcio della sua filosofica concezione di « armonia » fra gli esseri viventi « maggiori » e « minori », fra i più e i meno dotati, rivelatore senz'altro del suo pensiero, conciliandoli nel trionfo di una generale consonanza:
Ma oltre ai viventi non omogenei, credo io che di viventi minori (inconsapevoli di tutti i ministerii a cui servono, ma pur talune specie superiori dotate di maggiore spontaneità e altre forse d'elezione) si componga ogni vita. Il simile del convivere delle umane società; il simile nelle armonie del nostro pianeta con altre sfere, e degli spiriti nostri con altre di natura più intelligente e operosa.18
Ed ecco ora la lettera del Tommaseo, mandata da Firenze allo Zecchini il 26 settembre 1872:
C.S.Z.*
La scienza riconciliare al buonsenso; in parole nette raccogliere gli argomenti che difendono l'umanità dalla bestialità, dalla quale bestialità 1 vorrebbesi fare una nuova aristocrazia peggiore che la regalataci dalla Germania del 2 medio evo; rendere questo servigio alla schiatta italiana e all'umana è opera di carità anche per questo che, dimostrando la ridevole assurdità delle fandonie seriamente dette e ridette, e battute e ribattute, interdice (com'Ella spera), a qualche ignorante e imbecille nascituro,3 ripresentarle per poderose e lusinghevoli novità. Badi che nella fine il verso scribe quidquid proprium, va corretto scribe aliquid proprium, dic quod non dixerit alter,4 verso che fa onore al Cunich raguseo 5 e aggiunge qualcosa al verso di Giovenale aliquid brevibus Gyaris et carcere dignum, si vis esse aliquid 6 ch'io tradurrei: Scrivi cose da bandi e da manette; o Di' cose da confino e da segrete, ossivero Scrivi cose d'esilio e carcere degne; o, se meno le dispiace, Di' cosa che t'esili e t'imprigioni, S'esser vuoi da qualcosa.
Non so se Le sia capitata una lettera che rispondeva alle argute cose da Lei scritte intorno a' miei versi; e Le minacciava risposta quando che fosse. Risponderei più volentieri se ad altro proposito che di me proprio; ma io posso dividere me da me stesso, anche accennando a' miei versi; dicendo cioè quel ch'io sento della poesia vera, e non quel che ho fatto, ma quel ch'i' avrei desiderato di fare e desidero ch'altri faccia. La natura dell'artista qual che si sia, dev'essere simbolo di verità più profonde e più alte che le offerte da' sensi; ma simbolo, non enimma; velo, non inviluppo: deve anzi l'artista, con la parola o con gli altri strumenti sensibili, approssimare ai più le cose alte, recare in luce le profondamente recondite. A far ciò, conviene avere un pensiero che allo stesso artista illumini la verità, e lo aiuti a rifonderne in altri il raggio per via de' suoni articolati, o degli altri segni; conviene ch'egli abbia un affetto il quale lo muova e lo regga nel dolce ministero ma lungo e laborioso; lo regga in maniera che né egli senta la stanchezza del lavoro e molto meno la faccia sentire ad altri. Lungo il lavoro, non però lunghe le opere che ne riescono, se non quanto il soggetto richiede che sia, di narrazione importante o di dramma.
E nella narrazione e nel dramma, le consuetudini del mestiere, la smania d'ostentare l'ingegno, il vezzo della declamazione passionata, risicano d'intrudere fin nel mezzo della poesia vera qualcosa del retore e dell'accademico; e sin negli antichi più meritatamente ammirati qualcosa potrebbe notarsene. Ma la lirica antica e la veramente popolare è parca e rapida quasi tutta, e tanto più rapida quanto meglio ispirata; la lirica moderna è loquace, piena d'amplificazioni, di quelle che i musicanti chiamano variazioni; allunga perfino le similitudini, e scema evidenza a quel ch'è fatto per dare agli altri concetti evidenza. E questo viene dalla povertà de' pensieri e de' sentimenti; perché l'artista moderno tanto più si tien degno del nome quant'è più vuoto d'idee, anco di quelle che non dallo studio s'attingono, ma dall'esperienza e dall'osservazione, e che sarebbero veramente le idee più sue proprie. E' ripete le cose lette o udite, ora senza avvedersene e come smemorato, ora apposta e a stento, facendo dell'arte erudizione. Tutto cotesto, perché suo proprio affetto gli manca; e perché affetto gli manca, l'uomo, nella sterile e noiosa uguaglianza, è discorde a sé stesso; dice e disdice e ridice, e par che non sappia quel che si dica. Nel parlare ad altri, o piuttosto nello stampare e suonare e disegnare per altri, e' non interroga sé, pur pensando a sé; non esce di se medesimo colla carità e colla compassione, stando pur rannicchiato in sé con la fredda passione superba. Non sa trovare nel fianco proprio quel molto ch'è appropriabile agli uomini tutti, e che però, nel sentire e nel vedere le opere di lui, muoverebbe gli animi loro i quali riconoscerebbero se medesimi in esso. E però non sa trovare il linguaggio potente perché chiaro insieme ed eletto, semplice ed alto; e la sua poesia, anzi la prosa stessa, è una specie d'indovinello, di gergo. Chi non abbia appreso quel gergo dalle scuole e dalle accademie, non ci capisce niente; onde segue che ai più degli uomini Italiani bisognerebbe tradurre l'italiano di certi scrittori in lingua italiana perché ci capiscano qualche cosa.7 E in cotesti segnali da società segrete, anche i sommi talvolta si compiacciono da quattro secoli in qua, viziati dalla miseria de' tempi. Ma più lungo dire richiederebbesi a queste cose: e chi intenderebbe? Ella intende più là; e, anche non approvando, sa compatire il suo
aff. Tommaseo
26. 7bre 72. Fir.
la lettera è mandata alla posta. Mia moglie così così. Faccia cuore.
Questo scritto del Tommaseo ci appare, dunque, di notevole importanza e quindi meritevole di essere conosciuto, soprattutto per la chiarezza con cui egli sottolinea — all'interno del suo programma di civile educazione — la straordinaria forza morale della poesia, intesa anche negli ultimi anni della sua vita, nei suoi peculiari presupposti di inscindibile autenticità di sentimento e di semplicità di espressione, secondo i princìpi romantici a cui egli aveva sempre creduto.
Lucia Zanovello Gaddo
tratto da: “Lettere Italiane”, n.2, 1988
vedi copertina e frontespizio
1 Cfr. Carte Tommaseiane, pacchi nn. 150,80-20 e n. 184,63. Le lettere del Tommaseo sono 161, quelle dello Zecchini 199. Il carteggio va dal 1841 al 1874. La prima lettera è datata 4 marzo 1841 ed è scritta dallo Zecchini al Tommaseo; benché mutilata di un tratto presumibilmente sostanzioso di righi, nella prima e nella seconda facciata del foglio, farebbe risalire l'origine della corrispondenza alla ricerca che il Tommaseo aveva intrapreso per una raccolta di testi e traduzioni di canti popolari toscani, corsi, illirici e greci, la cui stampa era già iniziata a Venezia, presso Girolamo Tasso, in quello stesso anno, ed all'invito pubblico che egli aveva diffuso, tramite la « Gazzetta Veneta », a chi ne possedesse, a mandargliene.
Successivamente lo Zecchini, entrato in confidenza col Tommaseo, curò la diffusione delle di lui pubblicazioni in Friuli, valendosi di una rete di « soscrittori » raccolti in quella regione, incarico che il medico svolse con commovente devozione e con estrema meticolosità.
2 Pietro Viviano Angelo Maria Zecchini o Zecchinis nacque a S. Vito al Tagliamento da Francesco e Bernardina Menegazzi il 2 ottobre 1802. Pubblicista e fervente patriota, iscritto alla Giovane Italia e per questo noto ed inviso al governo austriaco, si laureò in medicina a Padova nel 1825. Amico di Giacomo Zanella, del poeta istriano Besenghi, del Prati, dell'Aleardi e del Fusinato, insieme con altri numerosissimi « filelleni », provenienti dalle più lontane nazioni, partecipò, fra il 1827 ed il 1832, alla guerra d'indipendenza greca, come capitano medico a servizio della flotta delle Isole Ionie. Da queste esperienze trassero origine ed ispirazione i suoi numerosi scritti di argomento ellenico, che videro la luce una volta tornato in patria. Si sposò nel 1840 con Francesca De Paoli, di Spilimbergo del Friuli, e qui svolse la professione di medico condotto fino al 1846. Scrisse molti saggi di divulgazione medica, che apparvero, per lo più, sulla stampa locale in quel periodo. All'inizio del 1847, per la prepotenza dei notabili del paese, fu costretto a lasciare la condotta di Spilimbergo per Venzone. Nel 1852 fu medico a Dignano d'Istria per un breve periodo, e, nello stesso anno, si trasferì a S. Vito, ove attese ad una intensa attività pubblicistica di argomento medico, scientifico, moralistico e storico, trovando conforto nella sua limpida filosofia e nel suo profondo sentimento religioso ai gravi dolori che tanto spesso e crudamente lo ebbero a provare negli affetti familiari. Si spense a Chions, il 18 giugno 1882.
Della sua vasta opera, di materia assai diversa, ricordiamo soprattutto i seguenti saggi: Riflessioni mediche sulla necroscopia del cadavere del Presidente della Grecia Giovanni Capodistria. Memoria del Dott. Pierviviano Zecchini, Venezia, Tip. Tasso 1832; Il Bacio, prosa d'amore, Udine, Tip. Vendrame 1837; La buona volontà se non è anche forte nulla vale (novella), S. Vito, L'Amico del Contadino 1845; Lambro Zavella Capitano di Sulli, tragedia storica del filelleno Pierviviano Zecchini, San Vito, Tip. dell'Amico del Contadino 1846; Anton Lazzaro Moro, in Strenna Friulana, 1846, pp. 29-56; Sulla condizione essenziale del colera e sul metodo curativo nel suo stato algido, Udine, Tip. Vendrame 1855; Della mummificazione artificiale e naturale ed in particolare delle mummie di Venzone, in « Politecnico », vol. XI, Milano 1861; Quadri della Grecia Moderna, Venezia, Cecchini 1864 (in appendice alcuni scritti di Niccolò Tommaseo); Indagini di Anton Lazzaro Moro sull'origine dell'amarezza dell'acqua marina, esposte da Pierviviano Zecchini, Portogruaro, Tip. Castion 1865; De' crostacei libri due di Anton Lazzaro Moro, Pordenone, Tip. Gatti 1869; Paragone di Miauli e Garibaldi. Racconto critico-storico-politico di Pierviviano Zecchini, Pordenone, Tip. Gatti 1870; I laghi di Bagnarola, in « Nuova Antologia », Firenze, marzo 1872; Compilazione di alcuni studi relativi all'origine dell'uomo, in « Sperimentale », XXIV, Firenze 1872.
Per trasmissione orale, inoltre, si conoscono anche questi altri scritti, a tutt'oggi, però, risultanti dispersi: Considerazioni sulle nazionalità emergenti; Considerazioni sull'attuale stato della Patria del Friuli (risposta a P.A.); Sulle scuole passate e presenti di S. Vito; Dell'antico gioco del pallone in S. Vito; La rivolta del 1511 (romanzo storico); Degli scrittori italo-friulani del '500 (saggio); Dei medici dell'epoca patriarcale (memoria); La pellagra (considerazioni mediche); Veneti e friulani al confine orientale d'Italia (polemica); Dei balli popolari nella patria del Friuli; Considerazioni su Camillo Delminio portogruarese; Considerazioni su Harvey-Pasteur-Malpighi-Linneo (lezione).
Cfr. su di lui i registri dell'archivio parrocchiale del Duomo di San Vito al Tagliamento ed ivi quelli dell'anagrafe; R. ZOTTI, Famiglie notabili di S. Vito, Sacile, ed. Sacilese 1926, sub voce Zecchini; A. DE GUBERNATIS , Dizionario biografico degli scrittori contemporanei, Firenze, Le Monnier 1879; A. TAMARO, Storia di Trieste, Roma, Stock 1924, vol. II; E. MICHEL, Dizionario del Risorgimento Nazionale, Milano, Vallardi 1937, vol. IV; R. CIAMPINI, Vita di Niccolò Tommaseo, Firenze, Sansoni 1945; N. TOMMASEO, Dizionario Estetico, Milano, F. Perelli 1860, III ed., tomo II, parte moderna, pp. 484-485.
3 In una lettera, ad esempio, del 21 maggio 1843 da Spilimbergo, così lo Zecchini scriveva al Tommaseo: « ... Non so s'Ella, come Rousseau, ami più la medicina che i medici, o viceversa; ché, a dir vero, dalle sue Opere parmi riscontrarLa poco favorevole sì all'una che agli altri. Pazienza! che già è vecchia l'antifona cantata a coro da tutt'i grandi uomini contro noi e la povera sposa nostra. Leggo nel suo mirabile scritto su Vico, pag. 43, che anche questo buon galantuomo la pensava a un di presso come tutti loro signori. Sennonché L'assicuro, che la medicina odierna tutt'altro che recare tutte le malattie ad una forma, le vede piuttosto d'infinite forme, bensì soggette quasi tutte ad una sola essenza o condizione morbosa, la quale per lo contrario non è sempre la stessa in malattie di aspetto uniforme. Quanto poi al biasimare i medici che camminano diritto per via di teorie, ritengo che si voglia alludere a una teoria nuda di osservazioni e non basata ai fatti; ed allora gli errori che ne vengono, non sono colpa della teoria, ossia del principio delle teorie, ma del medico. Così pure potrebbesi dire, e dicasi di quel sistema (se mai è sistema), che limitasi ad osservare i segni ed il corso delle malattie, invocato dal Vico; ché senza uno spirito filosofico che presieda alle osservazioni infinite che si raccomandano per la conoscenza delle malattie, l'osservare non è che vedere; e certamente non basta vedere per osservare.
Né creda, caro Signore, che oggi solo si teorizzi; ogni medico à sempre teorizzato, e ogni medico teorizza; e quelli che declamano contro la teoria medica in generale, non pongono mente, dice il celebre Darwin, che 'pensare' gli è 'teorizzare', e che nessuno può dirigere un metodo di cura in un ammalato senza pensare, vale a dire senza teorizzare. Fortunato dunque quell'ammalato il cui medico possiede la migliore teoria. Tutte le arti hanno i loro principi e la loro filosofia, cioè la loro teoria; che se l'hanno perfino quelle che sembrano nascere dal libero movimento dell'animo e dell'entusiasmo, tanto più, dice il nostro Tommasini, la devono avere quelle che provengono da un'induzione fredda e severa, risultante dall'analisi e dall'analogia ... Di fatto i modelli della natura desumonsi; il bello, il vero, e l'armonico è sempre uno; e della bellezza, della simiglianza e dell'armonia delle cose son giudici insieme e termometri i nostri sensi. Per lo contrario nelle operazioni, che dal raziocino e dall''induzione' interamente dipendono, l'uomo crea veramente ciò che non esisteva, ed à ben d'onde convincersi dell'attitudine della mente ad analizzare ed a paragonare, ad astrarre e a dedurre, giacché per questo mezzo intraprende operazioni di cui nessun esempio gli si presenta d'intorno, ed ottiene lo scopo, che il bisogno lo sforza a proporsi ... l'arte non è un immediato effetto dell'osservazione, perché tra i risultamenti dell'osservazione, e i tentativi dell'arte, stanno l'analisi e l'induzione, dalle quali l'arte stessa necessariamente dipende. Si tratta in medicina di casi infiniti, e di fatti da qualche lato sempre nuovi; si tratta di esterni fenomeni non sempre indizi fedeli del fondo e dell'essenza del fatto; si tratta di esterni caratteri di simiglíanza o di dissimiglianza, sempre equivoci od incerti ... Le parole osservazione — esperienze — fatti senza lo spirito filosofico che ne dia vita, sono (mi scusi il paragone) come il corpo d'Adamo prima che il Signore gli soffiasse nelle narici ... Ella pure può aver ragione, se considera la forma sotto un'idea quasi metafisica, come la 'forma' con cui il Rosmini si compiace spesso di chiamare il 'germe' indeterminato dell''essere' ». Cfr. a riguardo, N. TOMMASEO, Studi critici, Venezia, Andruzzi 1843, vol. I, « Prima Parte »; e vedi anche M. PECORARO, Saggi vari da Dante al Tommaseo, Bologna, Pàtron 1970, p. 334, nota 34 ed i riferimenti in essa contenuti.
4 Nella lettera del 24 maggio 1871 allo Zecchini, nella quale il Tommaseo confuta il materialismo di alcuni scienziati seguaci di Darwin intorno al problema della libera volontà dell'uomo, egli afferma: « Il disprezzo che affettan costoro di tutto quello che non è palpabile e adorabile, somiglia al ridere che un maestro d'aritmetica facesse, perché dotto di numeri arabici, al sentir parlare di numeri musicali. Ma troppo peggio fanno costoro che se volessero ridurre a quantità di sillabe da contar sulle dita, a elementi alfabetici le ispirazioni della poesia divina e della eloquenza. Negando lo spirito, costoro negano l'alfabeto sì del sapere e sì della moralità ».
5 Il 19 agosto 1872 in una missiva al Tommaseo con la quale il medico friulano esprime allo scrittore lodi e gratitudine per l'efficacia educativa delle sue poesie, paragonate a quelle antiche pagane, tra l'altro dichiara: « Il calore del suo cuore, cosa rara in tutti i verseggiatori, non è mai scompagnato dalla luce dell'intelletto. Una differenza sola trovo tra Lei e i Greci, in questo affetto per la natura, ed è che i Greci lo traevano dalla vaghezza o terribilità del suo aspetto, Ella in cambio dalla idea della gloria di Dio creatore e provveditore di tutte le cose, congiungendolo inoltre all'amore per l'uomo; del qual conflato sono sterili le pagine di que' genii immortali ».
6 Egli, infatti, aveva un'alta opinione del poeta e nei suoi scritti, come è noto, sosteneva di frequente il valore straordinario della sua funzione. « Scrivere — affermava, ad esempio, in Bellezza e Civiltà — come il cuore ti detta, scrivere a giovamento de' più, ecco le due sole leggi che proporre si possano allo scrittore qualsiasi, e sopra tutti al poeta » (cfr. op. cit., Firenze, Le Monnier 1857, p. 81). E nelle stesse pagine enunciava e ribadiva la necessità della natura morale della poesia: « Se questa può giovare, bene adoperata, alcun poco all'amore di quella verità ch'è indissolubilmente congiunta con la virtù, non dovrà reputarsi ozioso argomento il mostrare che la verità è bella abbastanza della sua propria bellezza senza che veli antichi la involgano » (vedi op. cit., p. 89).
7 D'altronde lo stesso Tommaseo così attesta in Ispirazione e Arte, criticando nei moderni il « troppo moltiplicare dei simboli » come « prova della originalità dell'ingegno »: « ... la soverchia frequenza o la troppa arduità di simboli può togliere alla poesia il principale dei suoi pregi, la popolarità; giacché, se il rendere evidenti le idee spirituali con le imagini delle cose esterne aggiunge all'efficacia della poesia, coll'assottigliare però di troppo la similitudine si trasporta la mente in una regione fantastica, e si assume un linguaggio che non è a tiro dei più » (cfr. op. cit., Firenze, Le Monnier 1858, p. 20). Ed ancora in una pagina ove auspica l'esilio delle favole mitologiche, giacché « il più degli uomini s'arresta alla scorza delle cose narrate », aggiunge: « La poesia non dev'essere alla verità velo, ma specchio (vedi Bellezza e Civiltà cit., p. 87). E a proposito del simbolo così dichiara: « ... il simbolo, in tanto è un de' caratteri propri della poesia e della eloquenza moderna, in quanto la moderna civiltà applica il simbolo a verità morali più varie, più alte; ne deduco che non ogni simbolo è poetico e bello, ma soli quelli che col riscontro d'un'idea corporea rendono l'idea morale più luminosa, più ampia, facendo sentire che il mondo visibile non è che imagine dello spirito ... » (cfr. Ispirazione e Arte cit., pp. 19-20).
8 Così in Ispirazione e Arte egli ribadisce l'esigenza di mondare il frutto del proprio originario travaglio: « Prima di scrivere meditiamo; scritto, limiamo. E questo è compimento di meditazione; e non è freddo lavoro se lo riscalda l'affetto. Non è freddo il lavoro dello scultore che alla statua digrossata ritorna con lunga cura amorosa: né la negligenza è calore, né estro la sbadataggine. Se il pensiero uscisse nelle parole intero qual è nella mente, e se nella mente concepissesi sempre perfetto, se l'uomo cioè fosse Dio, non avremmo bisogno di lima ». (Op. cit., p. 31).
9 Anche in Ispirazione e Arte così afferma: « Io tengo che gli scrittori, e quelli d'oggidì specialmente, dacché ci si fecero disusate e certe squisitezza dell'arte consumata, e gli estri leggiadri dell'ingenua natura, debbano a queste due fonti che paiono di contraria vena, attingere insieme; il popolo umile, e gli autori altissimi: da quello la copia, da questi la scelta; da quello l'affetto, da questi il senno » (ed. cit., p. 31).
10 Sul quale anche in Ispirazione e Arte così asserisce: « Massimo pregio d'ogni stile ... è l'evidenza; né ad evidenza si sale senza la semplicità del pensiero e la verità dell'affetto » (ed. cit., p. 24).
11 Allo stesso modo in Bellezza e Civiltà scrive: « Se l'unità è tanto essenziale al sentimento del bello e del sublime, ognun vede, perché la brevità del dire, se si concilii con la chiarezza, aggiunga al sublime » (ed. cit., p. 15).
12 Anche in Ispirazione e Arte, riferendosi alla « letteratura inutile » o « ciarliera », « che non osa attingere alla lingua viva, e si balocca con que' modi di dire indeterminati e impotenti, in cui pone la gravità, l'eleganza e la forza », così dice: « La mancanza de' pensieri fecondi e degli affetti sinceri avevan costoro (la parte più colta della nazione) bisogno di ricoprire con l'affettazione d'uno stile magnifico applicato a soggetti dappoco, di figure tratte dai versi d'antico poeta » (ed. cit., pp. 61-62).
13 La poesia, invece, dovrebbe, a suo giudizio, parlare agli uomini con linguaggio semplice e chiaro, e non dovrebbe « fermarsi su certe mezze passioni, mezze verità, mezze imagini, che impiccoliscono le forze dello spirito, e, coll'impiccolire, corrompono. E dovendo parlar chiaro e a voce alta, non possono compiacersi in que' mormorii, in que' gorgheggi che dell'arte poetica facevano sì gran parte al suo tempo » (cfr. Ispirazione e Arte cit., p. 25).
14 Cfr. la lettera al Tommaseo del 19 giugno 1843, nella quale, riferendosi ad un loro colloquio, probabilmente avuto a Venezia, il medico friulano così scriveva, tra l'altro: « L'impressione che Le fece quello stuolo di colombi (simbolo di tante care idee, anche prescindendo dal religioso), i quali quando intesero il segnale della presenza del creatore fra noi, spiegando il loro volo più vispo e più gaio, pareva che lo festeggiassero inneggiando dai loro cuori lodi intese solo da Dio, che perciò gliene diede la voce, questo sentimento sì religioso, sì poetico e delicato, che per lo meno ne innalza l'anima all'adorazione del mistero divino, non mi uscirà mai dalla mente. Ché tutto ciò che di poetico si lega alla religione è anello, il quale, meglio che l'intera catena del Giove d'Omero, virtualmente ci unisce al cielo e alla terra, cui dovremmo essere sospesi invece che striscianti, quasi che su noi si fosse scagliata la maledizione con cui il Signore punì il serpente dell'Eden ».
15 Vedi nota 3.
16 Riportiamo qui, a commento, alcuni passi tommaseiani sul principio di « imitazione » e di « creazione »: « Ormai credo superfluo provare che l'imitazione, da taluni miseramente posta tra gli elementi del bello, non può mai essere elemento del sublime, se manca all'imitazione la qualità essenziale del sublime, la novità. Si può, bene è vero, da un'espressione altrui trarre ad altro proposito un'espressione propria del sublime; ma questa, ognun vede, non è imitazione; anzi è appunto sublime, in quanto presenta in aspetto nuovo e grande un'idea minore e già nota ». (Cfr. Bellezza e Civiltà cit., pp. 14-15). E ancora: « Ma buon per noi che il vocabolo poesia veramente non suona invenzione: suona creazione, o per dir meglio, azione e fattura. Da quella specie d'associazione d'idee, che si chiama imaginazione, allorché l'anima non ne segue l'ordine accidentale, ma sorvolando le idee intermedie, passa a quelle che più le importano; da questa specie, dico, d'associazione d'idee la materia del bello, sparsa, per dir così, nelle varie sensazioni, s'accoglie in un punto; e ove l'ingegno sia potente, se ne compone un tutto, più o men prossimo all'intima verità delle cose (nel cui ordine è posta la vera bellezza) secondo che più o men retto è l'uso che l'uomo fece delle proprie facoltà nella vita.
Così la poesia è una perpetua creazione: creazione non pure non contraria alla verità, ma che da essa verità deduce forza e bellezza » (ivi, p. 92). E in Ispirazione e Arte: «Poesia creatrice: che delle descrizioni minute, delle pennellate rapide, delle vivide fantasie, delle verità attinte all'intimo del cuore, si serve come di mezzi, e però li adopera con varietà, con parsimonia, e senza affannosa ricerca » (ed. cit., p. 5); « La poesia creatrice ch'io intendo, ha i germi in sé d'un pensiero musicale, d'una pittura viva ed intera: è essa stessa pittura e armonia » (ivi, p. 6). Ed ancora, alle pp. 86-87, dissertando sul genere letterario dell'epopea aggiunge: « Anco nell'imitazione delle cose, quali sono, può trovarsi vera poesia: appunto come l'arte del ritrarre può essere pittura bella. Assai volte negli oggetti della natura, così com'e' stanno, è tale e tanta bellezza, che volerci aggiungere dell'ideale sarebbe un menomarne la nativa efficacia. Può anzi avvenire che per esprimere una grande ideale bellezza, il miglior modo sia copiar fedelmente una bellezza reale ».
17 Cfr. I contagii, poesia in quaranta versi scritta dal Tommaseo a Corfù nel 1852. (Cfr. N. TOMMASEO, Poesie e Prose, scelte e commentate a cura di R. Ciampini, Torino, Società Editrice Internazionale 1942, pp. 92-94).
18 E in questi termini Tommaseo si era espresso in Ispirazione e Arte (ed. cit., p. 4), a proposito del suo principio di « armonia »: « Io ho definito il bello l'unione di più veri compresi dall'anima in un concetto. Ripeterò la medesima idea in altri termini: l'armonia di più veri sentita dall'uomo ». « Ma la poesia sa cogliere de' veri il sommo ». « Il bello dunque non consiste nelle idee singole, significate in ciascun verso, in ciascun periodo, in ciascuna descrizione; ma nella loro armonia, nell'intero ».
* Di questa missiva esistono due stesure, presumibilmente la minuta e quella definitiva. Quest'ultima contiene le giunte della prima ed alcune lievi varianti; le une e le altre sono qui puntualmente segnalate.
1 Questo termine è stato aggiunto nella minuta.
2 L'espressione « dalla Germania del » è riscritta sopra una cancellatura, indecifrabile, nella minuta.
3 Questa voce è aggiunta, con un richiamo, nella minuta.
4 Cfr. RAYMUNDI CUNICHII, Epigrammatum, Parmae, Ex publico typographeo 1803, p. 78: Cui nomen Poetae tribuendum sit, v. 1.
5 RAIMONDO CUNICH (Ragusa di Dalmazia 1719 - Roma 1794). Gesuita, grecista e latinista, insegnò eloquenza nel Collegio romano e a Roma rimase anche dopo l'abolizione della compagnia. Amico di molti artisti del tempo (Cimarosa, Alfieri, Canova, Metastasio, Pindemonte, Zamagna), tradusse Teocrito, ma il suo capolavoro è la versione latina dell'Iliade (Homeri Ilias latinis versibus expressa a Raymundo Cunichis Ragusino, Professore Eloquentiae et Linguae Graecae in Collegio Romano, addjiciuntur epigrammata selecta anthologiae graecorum selecta, latinis versibus reddita et animadversionibus illustrata ex eodem cunichio ad Amplissimum Virum Balthassarem Odescalchium, Venetiis, Haeredes Balleonii 1784), i cui esametri, foggiati sui virgiliani, conservano tutta la maestà e lo splendore del verso greco.
Ampia notizia dà di lui lo stesso Tommaseo nel Dizionario Estetico, ed. cit., pp. 116-119. Cfr., inoltre, Dizionario Enciclopedico della Letteratura Italiana, Bari-Roma, Laterza UNEDI, PA, IRES 1966-68, vol. II, p. 181; Enciclopedia Italiana di Scienze Lettere ed Arti, Roma, Ist. Enciclop. Ital. G. Treccani 1949-50, vol. XII, sub voce.
Il verso scribe aliquid proprium, dic quod non dixerit alter, tratto da un epigramma del Cunich, appare nel Dizionario Estetico cit., alla p. 118, dove il Tommaseo, dopo aver tracciato la biografia dello studioso, esaltandone la straordinaria eleganza dello stile latino, rileva come per il Raguseo « l'ingegno senz'arte valesse poco » e « l'arte senza l'ingegno, nulla »; e come « nella poesia egli volesse splendore, nervo, evidenza, originalità ». Pochissimo dell'opera del gesuita è giunto fino a noi, causa anche la sua eccessiva modestia, per la quale, a detta dello stesso Tommaseo, molto non vide mai la luce.
6 Cfr. GIOVENALE, Satire, I, vv. 73-74: « si vis esse aliquid » è stato aggiunto nella minuta.
L'isoletta di Giari, nel mare Egeo, arida ed inospitale, era luogo di deportazione per prigionieri politici e per condannati di reati comuni.
7 E così il Tommaseo aveva scritto, a questo proposito, in Ispirazione e Arte (ed. cit., p. 24): « O voglia il poeta trattare materie religiose o morali, o consacrare col verso que' momenti solenni della vita domestica e della civile, ne' quali ogni uomo si sente fremere la corda della poesia; grande non sarà, se non parli l'universale linguaggio, il linguaggio del cuore. Deve egli a questo fine sacrificare qualche concettuccio ingegnoso, qualche pensier sottile, qualche riposta eleganza ». Ed ivi ancora, alla p. 62: « L'amore dello stile semplice e naturale non solo non distoglie dallo studio profondo della propria lingua, ma aiuta a conoscerla tutta, e adoprarla. Il vocabolario della lingua cortigiana si restringe nel giro di quelle idee che la parte più colta della nazione ammette nel quotidiano commercio: ma tutto il vocabolario delle arti e degli usi del vivere, tutto quel tesoro prezioso di traslati popolari, efficacissimi, dalla lingua del popolo solamente s'attinge ». E a p. 31, inoltre, aveva ribadito come tutto l'impegno ed ogni sforzo dovevano muovere nella direzione del popolo, che egli difende ed abilita a suggello di un amore per esso quasi viscerale: « Anch'il povero popolo sente ogni cosa bella, comprende ogni cosa generosa. Spiegarle non sa: ma le alte cose, ripeto, chi spiega? Bellezza e virtù sono sempre inesplicabili ».
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